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Le 10 risposte alle 10 domande della SIAE

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La SIAE e Confindustria hanno pubblicato sul Corriere della Sera una pagina dove ribadiscono la loro posizione circa il nuovo regolamento AGCOM. L’hanno fatto pubblicando 10 domande per “stimolare un dibattito” sulla questione.

Ecco le 10 risposte di Massimo Piscopo che smontano uno ad uno i presupposti SIAE e mostrano come l’attuale sistema dietro l’industria editoriale sia ormai inadeguato all’epoca digitale che stiamo vivendo.

1. Perché il diritto d’autore, che fuori dalla rete è riconosciuto, in rete non deve essere remunerato?

R: La presenza della rete ha cambiato completamente le dinamiche, rendendo obsoleto anche il solo concetto che c’è dietro l’esistenza dell’editoria e della filiera distributiva. Oggi chiunque può autoprodursi musica, libri, film e software, senza bisogno alcuno di avere degli editori alle spalle; la rete mette a disposizione degli strumenti potentissimi che permettono a tutti i nuovi autori non solo di fare a meno dell’industria editoriale e distributiva, ma anche di non andare contro gli utenti stessi, trovando nuovi modelli di business che non siano il chiedere soldi per delle copie, ma piuttosto per offrire le proprie conoscenze ed il proprio talento, facendo contratti di assistenza, di personalizzazioni, di creazioni di opere su misura, facendo concerti o rappresentazioni teatrali, facendo mostre e conferenze, vendendo manoscritti o altre creazioni uniche, piuttosto che semplici copie. Il successo di tanti autori, ma anche di intere aziende, che letteralmente vivono con l’open source, con le licenze cosiddette copyleft, e con i concerti, lo dimostra in modo inequivocabile.

Il diritto d’autore (diritto dell’autore a poter dire “questo l’ho fatto io e non altri”) peraltro, dalla stragrande maggioranza del “popolo della rete”, è sempre stato riconosciuto. Quello che oggi è contestato da tutti è il copyright (“diritto di copia” e non “diritto d’autore”). Copyright che, peraltro, a differenza del diritto d’autore (che è inalienabile e incedibile), quasi mai è in mano all’autore dell’opera, ma in mano alle corporazioni (SIAE e simili) e agli editori.

2. Perché coloro che criticano il provvedimento AGCOM non criticano anzitutto il furto della proprietà intellettuale? Perché impedire la messa in rete di proprietà intellettuale acquisita illegalmente dovrebbe essere considerata una forma di censura?

R: Rispondiamo alla prima parte. La copia non è un furto perché la copia si crea sempre da un originale e sarà l’originale (lavoro unico e non replicabile) a dover essere retribuito da chi dovesse commissionarlo. Pensiamo ad un pittore: sarebbe giusto pagare un pittore per avere una fotocopia di un suo quadro? Naturalmente no: chiunque paga un pittore si aspetta che in cambio gli venga consegnata la tela; è quella ciò che ha comportato il lavoro del pittore, quello su cui ha lavorato, ed è quello che va giustamente retribuito. La fotocopia, viceversa, così come qualunque copia meccanica o elettronica, è un processo meccanico o digitale che non ha comportato sforzo da parte di nessuno (a meno che non sia dimostrato uno sforzo il premere il tasto “start” su una fotocopiatrice). Motivo per cui, una copia meccanica o digitale, che non ha richiesto nessuno sforzo da parte di chi l’ha creata, ha valore pari a zero. Come si può definire furto qualcosa che abbia valore pari a zero? Peraltro non viene sottratto nulla: chi copia, in generale, lo fa col consenso di chi ha pagato quella copia. E a chiarirci ogni dubbio al riguardo è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 44840 del 2010, definendo in maniera inequivocabile che «è da escludere la configurabilità del reato di furto nel caso di semplice copiatura non autorizzata di “files” contenuti in un supporto informatico altrui, non comportando tale attività la perdita del possesso della “res” da parte del legittimo detentore» nonché che «i dati e le informazioni non sono compresi nel concetto, pur ampio, di “cosa mobile”» ed anche che «la sottrazione di dati quando non si estenda ai supporti materiali su cui i dati sono impressi altro non è che una “presa di conoscenza” di notizie, ossia un fatto intellettivo, rientrante, se del caso, nella violazione dei segreti». Chi continuasse a sostenere che la copia sia un furto non solo sarebbe un bugiardo ma rischierebbe anche di commettere il reato di diffamazione, andando contro le dichiarazioni espresse dalla Suprema Corte, che ha chiarito in modo inoppugnabile come il furto preveda lo “spossessamento” del bene da parte del detentore, cosa che la copia non comporta assolutamente.

Rispondiamo ora alla seconda parte. Impedire non la messa in rete di opere protette, ma l’accesso alla rete dove possono esserci ANCHE opere protette (perché è questo ciò che vuole fare l’AGCOM), in modo peraltro da scavalcare l’Autorità Giudiziaria, è una forma di censura sic et simpliciter, per il semplicissimo motivo che nel momento in cui venisse impedito l’accesso ad un sito estero come (ad esempio) Megavideo, non verrebbe solo impedito (o comunque complicato) l’accesso alle eventuali opere protette ivi presenti, ma anche a tutto ciò che non è affatto protetto da copyright, quali possono essere i video creati dagli utenti, i video i cui diritti siano scaduti, o i video creati con licenze libere. Quindi un impedimento al sito (che avvenga tramite DNS o blocco IP) impedirebbe, almeno per tutti quegli utenti incapaci di scavalcare il blocco, anche l’accesso a contenuti assolutamente legittimi.

Inoltre, la relazione di Google ad AGCOM ha dimostrato come sul suo popolare portale Youtube almeno il 60% delle violazioni accertate da parte dei detentori dei diritti vengano da questi non solo non cancellate, ma addirittura sfruttate a proprio vantaggio, monetizzando quindi parte dei ricavati pubblicitari per chi visualizza quei video in favore dei detentori dei diritti stessi e non limitando, allo stesso tempo, il concetto di “fair use” che è uno dei pilastri del DMCA statunitense.

3. Perché dovrebbe risultare ingiusto colpire chi illegalmente sfrutta il lavoro degli altri?

R: Perché, com’è stato spiegato sopra, la rete permette nuovi modelli di business, incentrati innanzitutto sul non far pagare agli utenti finali ciò che potrebbe essere finanziato in altre forme, in primis con la pubblicità. SIAE e detentori dei diritti si lamentano che la pirateria sfrutta il loro lavoro, quindi ci guadagna: perché non creano un sistema legale di distribuzione basato esclusivamente sulla pubblicità e non sul far pagare all’utente finale, sullo stile di http://www.film-review.it/filmgratis , sito italiano legale che già sfrutta questo modello di business in favore dei detentori dei diritti ma senza far pagare agli utenti? In questo modo gli utenti non sono costretti a pagare per una copia (che ha costo zero e che quindi sarebbe ridicolo chiedere di pagare) ma i detentori dei diritti continuano a percepire le royalties. Certo, in questo modo la filiera distributiva sparisce, così come sono spariti venditori di ghiaccio, maniscalchi, venditori di olio per lampade, ciabattini, sarcitori e altri lavori che avevano un senso quando nacquero ma che oggi non ce l’hanno più.

 

4. Perché si ritiene giusto pagare la connessione della rete, che non è mai gratis, ed ingiusto pagare i contenuti? E perché non ci si chiede cosa sarebbe la rete senza i contenuti?

R: SIAE non si è accorta che siamo nel web 2.0. La stragrande maggioranza dei contenuti presenti in rete (blog, portali di condivisione, social network, interi portali del software libero, come sourceforge) sono già gratuiti per gli utenti. Si paga la connessione alla (non “della”) rete come si paga l’accesso al telefono, all’energia elettrica o il gas o la benzina. Questo perché stiamo parlando di beni non infiniti: la banda internet non è infinita, ed è il motivo per cui si paga. La corrente elettrica non è infinita, ed è il motivo per cui si paga. Il gas e la benzina non sono infiniti, ed è il motivo per cui si pagano. Viceversa, i contenuti della rete, quelli sì sono infiniti, in quanto nel momento in cui vengono scaricati dalla rete, non vengono affatto sottratti dal “server” che li contiene, ma viene creata una nuova copia in locale. In realtà un costo ce l’hanno anche loro (dovuto all’usura dell’hard disk e alla capienza del supporto) e questo costo l’utente lo paga già nel momento in cui acquista il supporto, peraltro proprio pagando, insieme al supporto, il cosiddetto equo compenso, quindi finanziando gli autori di opere protette da copyright e non, come invece potrebbe essere, finanziando l’utente stesso che su quei supporti ci può mettere le proprie foto, la propria musica, i propri documenti, i propri programmi, i propri filmini delle vacanze. E qui veniamo alla domanda successiva.

 

5. Perché il diritto all’equo compenso viene strumentalmente, da alcuni, chiamato tassa? Perché non sono chiamate tasse i compensi di medici, ingegneri, avvocati, meccanici, idraulici, ecc.?

R: Perché l’equo compenso è dovuto a prescindere dal motivo per cui si usano quei supporti. Posso non chiamare un idraulico se sono capace di riparare da solo il lavandino. Sono tenuto invece a pagarlo se lo chiamo e se quindi gli occupo tempo, capacità e materiali per mettere queste tre cose (che si racchiudono nella sua persona e nella sua professionalità) a mia disposizione per un certo periodo. Viceversa, l’equo compenso lo paghiamo alla SIAE (e quindi, in primo luogo agli editori, ed in secondo luogo ad alcuni -mica tutti- autori iscritti SIAE) anche se usiamo quei supporti per mettere materiale che con la SIAE e con i suoi iscritti non ha niente a che vedere. Come altrimenti chiamare questo se non “tassa”, allo stesso modo di come paghiamo, ad esempio, quell’altra tassa chiamata canone RAI e questo lo facciamo solo per il fatto di avere un apparecchio “atto o adattabile alla ricezione di programmi radiotelevisivi” indipendentemente se guardiamo o meno i canali della RAI?

La legge sul diritto d’autore non permette di scaricare opere coperte da copyright. Per quanto riguarda la copia di sicurezza, tale eccezione è già concessa dalla legge e il diritto d’autore si è già pagato al momento dell’acquisto della “copia originale” (bell’ossimoro), quindi non si capisce per quale motivo si dovrebbe pagare l’equo compenso: cioè devo dare i soldi a Vasco Rossi per mettere sui miei supporti la mia musica (visto che la sua non posso metterla). E perché Vasco Rossi deve prendere soldi dalla mia musica? Cosa ha fatto nella mia musica Vasco Rossi da poter prendere soldi? Visto che si parla tanto di “furti”, sarebbe interessante sapere le risposte a questa domanda. Non rispondete, però, che si può avere il rimborso dell’equo compenso: questo è possibile, sì, ma solo per le aziende.

 

6. Perché Internet, che per molte imprese rappresenta una opportunità di lavoro, per gli autori e gli editori deve rappresentare un pericolo?

R: Lo rappresenta solo per quegli autori incapaci di sfruttarla a proprio vantaggio. Numerosi singoli e gruppi musicali sono su Youtube con un proprio canale ufficiale da cui gli utenti possono ascoltare tutta la musica che vogliono senza dover pagare nulla di tasca loro (gli autori guadagnano grazie ai banner). Quelli hanno imparato a sfruttare la rete. Per quanto riguarda invece gli editori, incapaci di aver sfruttato la rete quando avrebbero potuto, la loro scomparsa sarebbe positiva in quanto favorirebbe gli artisti emergenti che, mancando la promozione di massa fatta dagli editori sui media tradizionali, avrebbero le stesse opportunità di guadagno alla pari coi cosiddetti “grandi autori”, lasciando e demandando all’utente finale chi premiare sia con il solo visualizzare/ascoltare le opere attraverso il loro canale ufficiale, sia con il premiare direttamente l’artista andando ai suoi concerti o alle sue rappresentazioni teatrali.

 

7. Perché nessuno si chiede a tutela di quali interessi si vuole creare questa contrapposizione (che semplicemente non esiste) tra autori e produttori di contenuti e utenti?

R: E chi l’ha detto che nessuno se lo chiede? La contrapposizione attuale è tutta sbilanciata a favore degli editori e non degli autori. Come disse uno dei più famosi cantautori italiani iscritti alla SIAE, Lucio Dalla, in un’intervista a “Report” nel 2001 alla domanda “chi comanda in SIAE” risponde: “Mah, in teoria dovendo esprimere, non dare una risposta tecnica, ma dare una risposta utopistica, dovrebbero comandare gli autori. Non è mai stato così.”

 

8. Perché dovremmo essere contro la libertà dei consumatori? Ma quale libertà? Quella di scegliere cosa acquistare ad un prezzo equo o quella di usufruirne gratis (free syndrome) solo perché qualcuno che l’ha “rubata” te la mette a disposizione?

R: La libertà dei consumatori si traduce anche nella libertà di accesso a quelle opere non protette, che la direttiva AGCOM e quella promossa dalla SIAE e dalle associazioni di categoria tende ad oscurare. Il “rubata” lo rimando al mittente visto che si tratta di chi, attraverso la tassa dell’equo compenso, lucra sul Free Software, sul Creative Commons, sulle opere i cui diritti sono scaduti, sulle opere create dagli utenti stessi. Ma ritorniamo ancora sul concetto di copia. Perché si dovrebbe pagare per avere una copia? Perché dev’essere il consumatore a pagare per la copia, quando è possibile che chi voglia guadagnare possa già farlo oggi con altri sistemi (pubblicità) senza dover ricadere sulle tasche del consumatore? Rimando, ancora, alle risposte precedenti.

 

9. Perché nessuno dice che l’industria della cultura occupa in Italia quasi mezzo milione di lavoratori e le società “over the top” al massimo qualche decina? E perché chi accusa l’industria culturale di essere in grave ritardo sulla offerta legale di contenuti, poi vuole sottrarci quelle risorse necessarie per continuare a lavorare e dare lavoro e per investire sulle nuove tecnologie e sul futuro?

R: Tante industrie impiegano e occupano milioni di italiani, ciò non toglie che molti stiano in cassa integrazione, e che le industrie si stiano spostando all’estero dove la manodopera costa meno. Magari se mettete il naso fuori dagli uffici della SIAE vi accorgete che l’industria in generale, e non certo solo quella dei contenuti, è in piena crisi. Sono le conseguenze della globalizzazione, una globalizzazione che ha fatto comodo (e continua a fare comodo) all’industria stessa allo scopo di minimizzare le spese e massimizzare i profitti. Il lavoratore dell’industria cosa fa? Se ha alte specializzazioni e professionalità, come può essere un tecnico del suono di una sala discografica, non avrà problemi a lavorare quando l’artista, che non avrà più bisogno dell’industria, avrà bisogno di un tecnico del suono per fare il concerto come si deve. Se invece stiamo parlando di una persona addetta al replicatore, che si limita a premere “start” sulla fotocopiatrice, mi dispiace per lui ma il suo lavoro è diventato come il ciabattino e come il venditore di ghiaccio. Non si tratta nemmeno di globalizzazione, si tratta di puro e semplice progresso. L’era dei contenuti digitali ha bisogno di figure come il webmaster, il procacciatore di sponsor, l’amministratore di sistema (sysadmin). Il supporto fisico, e tutto quello che ne consegue, è destinato inevitabilmente alla scomparsa. Questo è cominciato nel momento stesso in cui l’industria è passata al digitale: supporto comodo ed economico, e soprattutto facile da copiare senza spese. Facile per l’industria, ma anche per l’utente. Così non era per il vinile e per la pellicola, dove l’unica pirateria esistente era quella industriale perché non tutti potevano permettersi all’epoca un incisore di vinili in casa. L’arrivo dei masterizzatori, prima CD, poi DVD e oggi anche BD, dovrebbe far capire all’industria che ormai la possibilità di copia, prima loro quasi esclusiva, oggi è in mano agli utenti. All’epoca dei primi videoregistratori, l’industria del cinema americano (la famosa MPAA) fece causa alla Sony. Dopo 6 anni e il fallimento commerciale del progetto Betamax, i tribunali decisero che gli utenti avevano pieno diritto di usare i supporti come meglio volevano. E l’industria cominciò a vendere anche le videocassette preregistrate nonostante molti registrassero da soli i film dalla TV. Oggi il business è internet, e internet è basata sulla gratuità per l’utente e sui banner per far guadagnare i webmaster e i produttori: lo dicono i successi dei siti come Facebook, Twitter, Youtube e lo stesso Google. L’industria si evolva promuovendo un sistema gratuito per l’utente ma che riesca a far guadagnare i produttori. Sarà quello l’unico modo per far abbassare di molto (non eliminare perché sarebbe impossibile) la pirateria. Gli utenti stanno aspettando un sistema simile dal 1999, cioè dall’arrivo di Napster, cioè da quando è stato dimostrato che la rete può funzionare senza doverci investire grosse spese.

 

10.Perché, secondo alcuni, non abbiamo il diritto di difendere il frutto del nostro lavoro, non possiamo avere pari dignità e dobbiamo continuare a essere “ figli di un Dio minore”?

R: Difendere è molto diverso da pretendere. Se io, che creo musica in Creative Commons, riesco a guadagnare ugualmente scrivendo musica su commissione e suonando dal vivo, non vedo perché altri, che magari percepiscono anche i soldi dall’equo compenso, non dovrebbero riuscire a fare altrettanto. Vuoi sfruttare il frutto del tuo lavoro: giustissimo e sacrosanto. Non attaccare chi ti apprezza, non chiamare “ladro” chi si prodiga per diffondere la tua opera e pubblicizzarti; al contrario, ringrazialo e invitalo ad ascoltarti dal vivo, in modo che tu possa dimostrargli le tue capacità da vicino e non attraverso un autotuner. Dimostra di saper suonare, cantare, recitare, fallo davanti ad un pubblico, e il pubblico apprezzerà e ti farà recensioni positive su internet, e altra gente ti conoscerà e verrà ad apprezzarti. Questo è l’unico modello distributivo accettabile: ogni altro modello, in primis quello basato sul far pagare l’utente finale per avere delle registrazioni e quindi delle copie dell’opera (che è unica e irripetibile e si esaurisce nel momento in cui hai finito di suonare), è, ripeto, destinato al fallimento. Lo stesso dicasi per attori e registi: dimostrate di saperci fare, andate nei teatri. Attori esperti, come il grande Eduardo de Filippo, o Massimo Troisi, ma oggi potremmo dire Massimo Ranieri, Luca de Filippo, Vincenzo Salemme (scusate se cito solo napoletani ma ovviamente il discorso è mondiale), sono innanzitutto attori di teatro (e che attori). Questo avrà anche un piacevole effetto collaterale: sarà la fine di quegli attorucoli da strapazzo, magari usciti da qualche reality, che per girare una scena la ripetono 30 volte. Se sbagli così spesso a teatro, nessuno verrebbe più a vederti. Conosco attori di compagnie amatoriali che darebbero molto filo da torcere a certi attori di cinema ben più famosi di loro. In teatro si premia il talento e la capacità, più che una bella presenza. E scusate se preferisco talento e capacità alla bella faccia di qualcuno che però artisticamente non vale niente.

Nota: Questo articolo non è mio, è stato scritto da Massimo Piscopo (Pianista e tastierista, Compositore di musica con licenza Creative Commons) su Facebook ed è rilasciato sotto licenza creative commons 3.0-BY-NC-SA. Potete copiarlo e diffonderlo alle stesse condizioni.


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